Sono giorni particolari, come un po’ tutto questo strano 2020. Il governo ha tra le mani una bella patata bollente: tengono banco questioni come quella della scuola, senza dimenticare il rilancio dell’economia, in via di definizione. Non mancano però le defaillance: non ultima quella, ennesima, sul mondo dei giochi da parte del Consiglio di Stato.
Il Decreto Agosto aveva fatto pensare ai migliori propositi circa il tanto agognato riordino del gioco pubblico. In seguito gli slanci di ottimismo del Consiglio di Stato avevano continuato ad aprire un bagliore di speranza salvo poi far crollare tutto, comprese le speranze degli addetti ai lavori del settore del gioco. Insomma, invertendo gli addendi i risultati sono sempre gli stessi. E torna a riproporsi, con forza, quella ambivalenza tipica dello Stato Italiano, sempre in lotta con se stesso.
Il Consiglio di Stato, nel giro di dieci giorni, ha prima emesso un parere favorevole sul settore gioco, per poi prendere una direzione completamente opposta con una sentenza sul ricorso di Appello intrapreso dal comune di Guidonia Montecelio contro la sentenza del Tar Lazio che lo scorso anno annullava l’ordinanza sugli orari di gioco del comune nel romano, reo di non seguire i criteri stabiliti dalla Conferenza Unificata del 2017: lo Stato, insomma, ha dato ragione al comune del Lazio.
Un verdetto inatteso e che fa vacillare una delle poche certezze emerse dall’ormai dimenticata Conferenza Unificata del 2017 tra enti locali e governo sulla regolamentazione del gioco.
Il Consiglio di Stato ha fatto, in pochi giorni, tutto il contrario di tutto, pur avendo di fatto riconosciuto il potere di indirizzo e coordinamento dello Stato in relazione ad un settore che investe in maniera trasversale materie di competenza anche delle regioni. Una anomalia che non stupisce l’intero mondo del gioco, anzi un leitmotiv purtroppo frequente nell’ultimo lustro. Mentre l’Europa dei giochi va avanti e si regolamenta sempre più, in Italia persiste il solito macello e tutto è da rifare. Se prima era venuto fuori un lieve quanto fragile appiglio per la futura ricostruzione del gioco, ora non vi sono più le stesse speranze. Ed il verdetto di Guidonia rimette tutto in discussione, seppur quella del riordino resti una potenziale riforma che è competenza esclusiva della politica.
Ma quel che pare ormai sempre più evidente è che né il Governo né l’intero Parlamento hanno le idee chiare sulla gestione del gioco pubblico e sulla sua futura regolamentazione. Scrivere un mero vademecum di regole definite servirebbe a poco. La questione, come un anno fa, continua a girare sugli stessi punti: il gioco pare essere più materia di dibattito ideologico e si fa perennemente fatica a inserirlo nella categoria di quegli argomenti meramente politici, nel senso pieno del termine.
Al di là della giurisprudenza, il governo ha tutti gli strumenti per mettere mano ad una riforma ampia ed integrale dell’intero comparto, potendo contare anche sulla disponibilità di mediazione che più volte le associazioni di settore e gli addetti ai lavori hanno palesato. A causa della pandemia diversi tavoli di discussione sono aperti e Stato e regioni, per quanto riluttanti, dialogano costantemente anche su punti ritenuti da ambo le parti scomodi. Come il gioco, del resto, il nemico di tutti. Ma una delle pietre fondamentali dell’economia, soprattutto in un periodo di crisi.
Ora, per il Governo, un’altra partita: quella che nei prossimi cinquanta giorni deciderà alcune tra le questioni più delicate di tutta la parabola dell’Italia repubblicana. C’è da chiudere sul decreto semplificazioni, sul Decreto agosto e si dovrà pensare alla nota di aggiornamento al DEF, oltre alla definizione dei criteri del Recovery Fund. Poi sarà tempo di Legge di Bilancio. Questioni in cui non si può giocare. Né tantomeno sbagliare.